6 2) L’uso di pigmenti nell’antichità Paolo Mora, Laura Sbordoni Mora e Paul Philippot,6 sostengono che le prime pitture murali appaiono circa 30.000 anni a.C. sotto la forma di impronte di mani in positivo o in negativo. I pigmenti usati sono la terra rossa o nera, singolarmente o mescolate, e il sangue. L’impronta della mano in negativo è ancora ampiamente praticata dagli aborigeni australiani e altri popoli. Nei casi storici più noti (Lascaux, Altamira) le analisi hanno evidenziato nei pigmenti scuri e rosso cupo la presenza di ossidi di ferro e manganese.7 Nello specifico, la “terra nera” è composta da CaCO3, ossidi di ferro e di manganese; la “terra rossa” (o Terra di Siena bruciata) da ossidi di ferro e biossido di manganese. Il colore rosso cupo ha da sempre avuto una forte valenza simbologica in ogni tipo di cultura, come afferma Obermayer: «È noto che i pigmenti rosso cupo e viola sono stati usati nella storia dell’uomo in diversi riti, compreso il tatuaggio, ed hanno avuto nella maggioranza delle culture arcaiche un significato mistico e religioso».8 3) Come ha potuto il colore arrivare fino a noi? Per il momento non sono state effettuate analisi microchimiche sulla natura dell’eventuale legante, un “adesivo” che doveva essere presente nella stesura del pigmento per assicurarne una così prolungata resistenza nel tempo. Alcuni studi9 su pitture arcaiche hanno evidenziato la presenza di numerosi leganti organici quali: grasso animale, siero di sangue, uovo, latte, caseina, gomma arabica, gelatina animale, melassa, zucchero, resine, colla di pelle. Senza entrare nell’ambito della definizione chimica, tutte queste sostanze sono “siccative”, cioè induriscono a contatto con l’aria, e sono “filmogene”, formano uno strato tenace che ingloba i pigmenti. Compatibilmente con la presenza di numerosi fissativi moderni (sintetici) usati durante le operazioni di consolidamento, può essere utile ad avviare una ricerca di eventuali tracce del legante. 4) Continuità nelle forme e motivi decorativi Quanto segue non vuole assolutamente stabilire analogie fra le stele di Saint-Martin-de-Corléans ed i manufatti che vengono descritti, appartenenti all’area nordorientale del Sahara e nella zona di confine fra Sudan ed Eritrea. Avendo partecipato a campagne archeologiche in quelle regioni, ho realizzato una documentazione interessante su manufatti “grosso modo” coevi, con punti di contatto formali ed estetici che possono costituire uno spunto per ulteriori ipotesi e ricerche. Le forme geometriche (triangoli, cunei, quadrati) hanno avuto diffusione e continuità in tutte le attività decorative dell’umanità. Nel caso specifico a cui faccio riferimento, in area nubiana tali forme decorative sono state usate costantemente dal periodo del Kerma Arcaico (2500 a.C. circa) fino al Kerma classico (1500 a.C. circa), nei regni di Kush (1200 a.C.), Napata (500 a.C. circa) e Meroe (anno 0). Innumerevoli reperti ceramici hanno questo tipo di decorazione, come ampiamente descritti da George Andrew Reisner10 e Charles Bonnet11 (figg. 5a-b). Il colore rosso, ancora oggi molto comune nelle decorazioni, era regolarmente usato per dipingere il fondo delle cappelle funerarie. In quelle regioni, anche ai giorni nostri, i motivi decorativi geometrici triangolari e a girali sono estremamente frequenti su manufatti di ogni tipo ed attrezzi di uso quotidiano. Elementi decorativi antropomorfi sono ancora largamente diffusi nell’area nubiana fino allo Yemen, dove sono usati nel coronamento dell’entrata principale delle abitazioni, suggerendo una simbologia di figura umana a braccia alzate in segno di benvenuto (fig. 6). Motivi cuneiformi, dipinti in rosso, sono abituali nelle porte di entrata delle abitazioni in Nubia nilotica, anche se non associati a forme antropomorfe. Simili motivi basati su forme triangolari e/o cuneiformi sono usati ancora oggi nella tonsura del pelo di animali considerati pregiati in quei territori (fig. 7). 5b. Ceramiche decorate a motivi geometrici dalla Bassa Nubia. (Da BONNET 1990) 5a. Ceramiche decorate a motivi geometrici da Kerma. (Da BONNET 1990)
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