167 dell’Île-de-France raggiunse punte di inedito virtuosismo, sia stilistico che tecnico. Tuttavia, tutto questo non impedì in qualche regione periferica o impervia situazioni di resistenza e contraddizione rispetto alle novità parigine, in particolare per la tenace fortuna devozionale di alcuni simulacri romanici locali, capaci di “ritardare” le esigenze espressive più moderne e, di fatto, l’aggiornamento corrente degli scultori autoctoni.15 L’idioma gotico si estese comunque rapidamente in gran parte dell’Europa, dal contesto franco-mosano risalendo il Reno attraverso gli snodi cruciali di cantieri come Strasburgo e Friburgo fino a raggiungere le Alpi.16 Il contatto poté essere assicurato anche per via diretta grazie agli oggetti d’arte, sovente espressione degli stessi scultori come nel caso della produzione eburnea, la cui frequente esportazione rappresentò un vettore formidabile per la diffusione della rinascenza in atto.17 I volumi miniati, gli avori e le oreficerie spesso erano richiesti nelle aree più lontane come simboli di status oppure venivano donati in segno di legittimazione delle famiglie nobili o dei tesori religiosi a cui erano destinati.18 Tra quelle che si potrebbero citare è indicativa una testimonianza pervenuta verosimilmente proprio dall’Île-de-France quale l’intenso Crocifisso di bronzo dorato (1220-1230 circa) nel Museo del Tesoro della cattedrale di Aosta.19 La croce astile su cui è montato è di manifattura aostana, ma le geometrie formali del perizoma anticipano un linearismo che almeno fino quasi allo scadere del Duecento sarà variamente adottato anche in opere locali come il Crocifisso della parrocchiale di Avise (Museo d’arte sacra).20 Nondimeno, un simile orientamento culturale è stato assicurato prima di tutto dalla natura transfrontaliera dell’antica contea di Savoia di cui il territorio aostano era parte integrante, come pure dal fatto che dal IX al XIX secolo la diocesi di Aosta sia appartenuta alla provincia ecclesiastica della Tarentaise nella Francia sudorientale.21 Le nuove espressioni artistiche si irradiarono dunque senza reali ostacoli fino alle attuali Alta Savoia, Vallese, Piemonte occidentale e, per l’appunto, Valle d’Aosta, sfruttando i collegamenti tra i diversi versanti, vale a dire strade carovaniere e di pellegrinaggio come la via Francigena e la sua rete di diramazioni alpine. E in effetti una sensibilità più decisa in chiave moderna si coglie con l’ultimo e il più importante dei tre artisti censiti: il Maestro della Madonna del Santuario di Oropa. L’opera che ne assegna il nome, venerata nel celebre santuario biellese come la “Madonna nera”, fu collegata da Giovanni Romano al termine ante quem del 1295: ipotesi approfondita da Rossetti Brezzi relativamente a due documenti dei mesi di febbraio e marzo di quell’anno (trascritti in copia nel 1304) con riferimento alla consacrazione da poco avvenuta (a seguito di una probabile riedificazione del tempio preesistente) e alla dotazione della chiesa di Santa Maria di Oropa da parte del vescovo di Vercelli, originario della Val d’Aosta, Aimone II di Challant (1273-1303).22 Tenuto conto della rigidità dell’inverno montano, il tutto verrebbe quindi fatto risalire dalla studiosa all’estate precedente, nel 1294. Quel che è certo è che, prima di allora, Aimone fu canonico della cattedrale di Aosta e presule della stessa città (1272-1273) e che, negli ultimi anni del secolo fino quasi alla sua morte, continuò a promuovere il culto mariano nel santuario di Oropa incrementandone i benefici. Sia chiaro, non sussistono notizie specifiche, ma la provenienza aostana di questo vescovo rafforzerebbe la possibilità che il simulacro della “Madonna nera” sia stato donato da Aimone o, perlomeno, che egli abbia potuto intercedere per agevolarne la commissione a un conterraneo che evidentemente a quella data doveva già godere di un’eccellente reputazione e un atelier avviato. Viceversa, anche in virtù di accorgimenti di costume come gli scolli appena allargati delle figure, alcune ipotesi recenti hanno posticipato di oltre trent’anni, forse in maniera troppo perentoria (più che mai per gli intagli più minuti o stilizzati), la seriazione temporale di buona parte delle opere considerate successive al Maestro della Madonna di Oropa o create dalla bottega.23 In verità le soluzioni adottate sono già individuabili nella moda del secondo decennio del Trecento: sebbene di altro contesto, si possono ricordare i dipinti della fase giovanile di Pietro Lorenzetti come i soggetti emblematici delle Sante che componevano il Polittico (1315-1320 circa) della Madonna col Bambino di Montichiello (Pienza, Museo Diocesano), soprattutto quelle oggi al Museo Horne di Firenze, e ad Arezzo le Sante dipinte sulle cuspidi del celebre Polittico commissionato nel 1320 per la pieve di Santa Maria.24 Di certo il Maestro della Madonna di Oropa introdusse la scultura aostana a un rinnovato livello di cognizione del Gotico europeo, sia in favore di una ricercatezza stilistica dalle forme più affilate e calligrafiche, sia per l’uso nei paliotti e retabli d’altare di elaborati palinsesti narrativi che avrebbero rappresentato il più alto esempio del genere nella produzione plastica in legno del Medioevo norditaliano. La lezione di questo raffinato artefice fu perpetuata fino quasi alla metà del XIV secolo per mano di una nuova generazione di artisti, credibilmente già parte dell’entourage, che si affermarono tra il terzo e il quarto decennio con valori espressivi più stereotipati e composizioni d’insieme costipate. In questa serie il pregevole Dossale della cattedrale di Aosta, di formato molto allungato e raffigurante le Storie della vita di Cristo (1320-1330 circa), dovette costituire un ulteriore riferimento stilistico difficile da ignorare, così come tendono ad avvalorare i bassorilievi del cosiddetto Maestro dell’Ancona di Valpelline, attivo all’incirca negli anni 1320-1340.25 Alla stessa fase appartengono quindi anche le personalità conosciute con gli appellativi di Maestro del Cristo di Gressan (da intendersi prudenzialmente a causa dello stato di conservazione delle opere che gli possono essere attribuite tra il 1320 e 1330) e di Maestro del San Vittore di Roisan (attivo negli anni 1330-1340 circa).26 Insieme al Maestro di Valpelline, tali figure sarebbero degne di un approfondimento mirato che per ragioni di spazio non è possibile qui affrontare, ma fin d’ora permettono di ribadire il livello di omogeneizzazione e sostanziale continuità, se non proprio il completo monopolio, che l’impronta artistica del “caposcuola” riuscì a infondere sulla scultura locale. In generale, per un’analisi dei maggiori intagliatori aostani tra XIII e XIV secolo occorre immaginare come avrebbe dovuto strutturarsi la bottega. La carenza di informazioni documentarie rende piuttosto insidioso il
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