Bollettino della Soprintendenza

205 non si sarebbe inserita correttamente. Non a caso, a fronte della quantità di opere valdostane del XV secolo (soprattutto tessuti), prendendo le debite distanze dalle datazioni in catalogo e sposando l’idea di un Medioevo allargato cronologicamente anche ai secoli più antichi, quelle posteriori si riducono di numero. Rappresentano il Cinquecento le due opere di pittura, la ciotola in legno di Giacosa e il messale miniato di Giorgio di Challant, mentre il XVII secolo è rappresentato da due oreficerie (la cassetta di Saint-Oyen e l’ostensorio di Châtillon), due tessuti di Saint-Oyen, il manipolo del comitato diocesano e la campanella traforata del canonico Noussan. Spicca anche in questo caso la scarsa collaborazione della collegiata dei Santi Pietro e Orso: nel 1880 le opere esposte erano tre (la cassetta per la mandibola di san Grato, un calice del XV secolo e il bastone priorale), mentre adesso si riducono a due, ovvero un calice antico e il braccio reliquiario di Sant’Orso. Sembra comunque che ci sia anche un’attenzione alla cernita delle opere, in maniera tale da proporre oggetti diversi rispetto alla precedente mostra, senza tuttavia rinunciare ai capolavori del Tesoro della cattedrale come il dittico, la fibula, la cassetta limosina di Villeneuve e il braccio di san Grato, nuovamente esposti.45 Del resto, per la prima volta viene dato spazio ai beni delle parrocchie della Valle, piuttosto che attingere a larghe mani ai tesori delle due chiese più importanti di Aosta, atteggiamento che ben si inserisce all’interno degli sforzi ricognitivi sul territorio messi in campo da Vittorio Avondo, Alfredo d’Andrade, Giuseppe Giacosa (fratello di Piero), Casimiro Teja e Federico Pastoris, all’epoca dell’iniziativa del Borgo medievale nel 1884.46 La provenienza di molte opere dalla Bassa Valle (Perloz, Châtillon, Saint-Vincent, Verrès) si concatena perfettamente anche con l’acquisto del castello di Issogne da parte di Avondo nel 1872 e con l’assidua e capillare perlustrazione delle vallati laterali per reperire oggetti d’arredo per il castello e manufatti artistici da salvaguardare e da prendere come modello per l’esperimento del borgo.47 Rispetto alla mostra del 1880, la fanno da padrone i manufatti tessili valdostani, a dimostrazione di un interesse piuttosto precoce verso un patrimonio di grande pregio, spesso all’epoca poco valorizzato. Tuttavia, in mostra, le opere di questo genere che riguardano la valle raggiungono un numero consistente solo grazie all’iniziativa dei privati, in particolare Piero Giacosa, come si è visto. Il ruolo dei collezionisti per gli oggetti della Valle d’Aosta fa ancora la differenza, ma lentamente questo ruolo ambiguo comincia a pesare, anche sulla scorta della nascita degli uffici regionali per la conservazione dei monumenti nel 1891, e una spia in questo senso viene da alcuni tentativi malcelati di non comparire, come si è visto per il canonico Noussan e il suo dipinto con la Madonna allattante; sullo sfondo rimane anche l’Accademia di Sant’Anselmo nonostante all’epoca fosse presidente il vescovo Duc.48 Un chiaro segnale di un’inversione di tendenza nell’approccio alla conservazione arriva da un episodio che vede protagonista Joseph-Auguste Duc, il quale, incautamente, presta per la mostra sui codici il ricco messale 43 della Biblioteca di Sant’Orso (fig. 19), all’epoca nelle sue mani, nascondendo la proprietà privata dietro una generica appartenenza del manoscritto alla cattedrale di Aosta, di cui era vescovo. La questione non sfugge a suo cugino, François-Gabriel Frutaz, che nel 1908 verrà nominato ispettore onorario delle Antichità e Belle arti, ma già all’epoca della mostra, in virtù dei suoi contatti con gli esponenti delle commissioni (tra cui anche Carlo Cipolla, cardine della mostra sui manoscritti), veniva sollecitato affinché convincesse il vescovo a restituire il messale e i due dipinti in suo possesso.49 La vicenda assume contorni piuttosto ampi se Francesco Carta, Cesare Bertea e Alfredo d’Andrade prendono carta e penna per stigmatizzare il comportamento del vescovo.50 Mentre l’episodio getta discredito sull’operato di Duc, risplende la fama oltre confine di Frutaz, invitato a tenere una conferenza sull’arte valdostana durante l’esposizione del 1898, come ricordato in apertura di questo articolo. Sono quindi poste le basi per avere gli appoggi necessari alla futura nomina di ispettore ed è con lui che collaborerà anche un gigante della storia dell’arte come Pietro Toesca per la stesura del catalogo su Aosta degli oggetti d’arte e di antichità d’Italia, pubblicato nel 1911.51 La confidenza con i membri dell’esposizione e con i direttori dei musei torinesi è tale che quando finalmente, a distanza di dieci anni, il vescovo restituisce le opere d’arte, Frutaz chiede a Baudi di Vesme un parere sull’attribuzione dei dipinti.52 All’epoca della mostra del 1898 proprio Alessandro Baudi di Vesme, infatti, era stato incaricato della sezione dei dipinti insieme con Vittorio Avondo ed entrambi avevano nello stesso periodo la direzione di due istituzioni museali fondamentali per il Piemonte, come la Regia Pinacoteca e il Museo Civico di Torino. Il clima era sostanzialmente mutato dalla mostra del 1880 e alla scelta di un artista 18. La sala dei Codici miniati - (Sala H). (Da “Arte Sacra”, n. 17, 1898, p. 136)

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