Bollettino della Soprintendenza

79 Introduzione Gabriele Sartorio Sempre più frequentemente nel corso degli ultimi anni ed in linea con una nuova visione del cantiere di scavo, l’attenzione degli archeologi si rivolge alla ricostruzione globale dei siti oggetto di indagine. Dall’analisi del particolare, intesa come mero esercizio di rilievo e catalogazione, è sempre più ricorrente l’estensione dello studio ai fini della comprensione dell’ambiente di riferimento, sia naturale che antropico, nel tentativo di addivenire a una ricostruzione storica che si fondi su fattori economici, sociali e materiali al contempo. In questo contesto operativo, che fonda la propria ragion d’essere nella collaborazione pluridisciplinare, lo studio dei reperti assume un valore particolare, dal momento che la cultura materiale costituisce, per l’archeologo, la chiave di lettura primaria di un sito. Ancora troppo spesso, tuttavia, quando si parla di materiali recuperati dallo scavo archeologico si fa riferimento, implicitamente o meno, alla ceramica, ai metalli, ai vetri, ossia in generale a quelle classi di oggetti che, secondo una tradizione di studio consolidata, forniscono delle seriazioni utili ai fini della messa in fase e della ricostruzione cronologica delle sequenze stratigrafiche e delle strutture connesse a queste. Tra i reperti ancora troppo spesso tralasciati nelle documentazioni di sintesi vanno certamente annoverati quelli ossei, soprattutto animali. Tranne eccezioni, per fortuna sempre meno sporadiche, non sono ancora particolarmente diffuse le analisi sui materiali osteo-faunistici, nonostante gli stessi rappresentino, specie in ambito insediativo, una tipologia di materiale spesso di facile reperimento e in grado, come hanno dimostrato studi recenti, di contribuire alla ricostruzione economica e sociale dei contesti di scavo. A fronte dell’alta capacità informativa, i reperti ossei faunistici sono, del resto, spesso negletti già in fase di raccolta dei dati, finendo tra gli “scarti” che neppure arrivano in deposito. La motivazione risiede, almeno in parte, nella poca attitudine dei direttori di scavo, Soprintendenza in primis, poco abituati a confrontarsi con una tipologia di materiale non direttamente accessibile, ma bisognosa di appositi esperti per essere decifrata. In secondo luogo, quello che impedisce una corretta applicazione metodologica è spesso la tempistica dell’indagine, legata, per i cantieri pubblici, al ritmo dell’emergenza costante. Non è un caso, del resto, che in questo campo i risultati di maggiore interesse e approfondimento provengano, anche a livello regionale, da scavi che, anche qualora gestiti dall’ente pubblico, non abbiano rivestito carattere di urgenza, quali i contesti castellani di Quart, Cly e Graines. In questo senso, tra i meriti dell’Università degli Studi di Torino che in questi anni sta coordinando, insieme alla Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta, un intervento archeologico presso il sito di Orgères a La Thuile, vi è anche quello di aver strutturato il cantiere di scavo come un vero e proprio campo-scuola fortemente multidisciplinare, coinvolgendo maestranze e professionalità differenti e operanti in campi di indagine più estesi rispetto al solo contesto archeologico classico. Le ossa animali, abbondantemente presenti nei depositi, sono così state accuratamente raccolte nella loro totalità, senza operare alcuna forma di scarto selettivo, ed i reperti ottenuti sono stati avviati a studio di dettaglio grazie ad una tesi specifica sul materiale faunistico proveniente dal sito. I primi risultati ottenuti, come si vedrà, sono incoraggianti e permettono di contribuire ad un’analisi già impostata a livello regionale che finora aveva avuto il pregio di dimostrare l’importanza del problema e le possibili ricadute degli approfondimenti sul tema, ma che al contempo si era limitata allo studio di contesti per così dire fortemente settoriali, privilegiando per il basso Medioevo siti castellani e dunque livelli sociali elitari. Il caso di Orgères, al contrario, può costituire un valido contrappunto, permettendo di gettare luce sulle abitudini alimentari e sulle tipologie allevatizie di un piccolo, ma nodale, sito d’alta quota di periodo medievale.1 Uno scavo multidisciplinare Giorgio Di Gangi*, Chiara Maria Lebole* L’importanza delle indagini di scavo condotte nel sito alpino di Orgères, a 1.665 m di quota, è determinata non solo dai dati archeologici ma anche, e soprattutto, da quelli ottenibili dalla ricerca condotta dall’Università di Torino. In questi anni sono stati coinvolti nello studio vari settori disciplinari al fine di indagare compiutamente il territorio e cercare di delineare un quadro attendibile del paesaggio storico. Ad un fondamentale approccio topografico sono stati aggiunti, oltre alla creazione di un archivio biologico, l’analisi dei manufatti ed una - seppur iniziale - ricostruzione storico-archeologica, utile anche per restituire e condividere i dati ottenuti con la comunità residente.2 Le notevoli difficoltà dell’insediamento in area alpina determinano una precisa organizzazione degli spazi da parte delle comunità di valle, funzionali a forme di gestione che prevedono attività agro-silvo-pastorali anche complesse, che danno origine a scenari articolati. L’archeologia degli spazi montani correttamente intesa non può, quindi, prescindere da contesti analitici ampiamente interdisciplinari e diacronici.3 I dati raccolti sul terreno sono stati relazionati con le fonti scritte per cercare di identificare le forme di gestione delle differenti risorse, e le loro inevitabili trasformazioni, oltre a tentare di comprendere come queste possano aver influito sulle forme giurisdizionali o sul diritto di accesso e sfruttamento delle stesse.4 Una specifica organizzazione del territorio poteva indicare un atto di possesso - tramite, ad esempio, la costruzione di un edificio - oppure legittimarne LO SCAVO DI ORGÈRES A LA THUILE VERSO LA CREAZIONE DI UN ARCHIVIO BIOLOGICO Gabriele Sartorio, Giorgio Di Gangi*, Chiara Maria Lebole*, Chiara Mascarello*

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